lunedì 30 gennaio 2012

Sì, io sono quella dei Post "l'unghie" (il titolo serio è: "La versione di Luhmann: Lupin, Fujiko e la Doppia Contingenza")

... E anche quest'anno, carnevale è alle porte. Vorrei essere rimasta ai miei cinque anni, seduta su un carro pidocchioso con due sacchetti di coriandoli e uno di caramelle di cui sarei stata defraudata nel giro di pochi minuti da mia cugina e dalla sua amica col naso da strega (non di gomma. Era vero-vero: lei aveva un vestito azzurro da principessa, ma ho sempre pensato che avesse dovuto vestirsi da scopa - rachitica e stronza com'era - ma vabbeh...).

Si diceva, anche quest'anno carnevale è alle porte. Una volta la vedevo come una semplice festa in costume, un trastullarsi popolare e colorito da sfruttare per vestirmi da quella cosa che non avrei potuto essere in nessun altro giorno dell'anno e che avrei voluto essere in tutti i restanti giorni della mia vita: una Principessa. E non nel senso economico-politico del termine. Francamente, penso che un vestito come quello di Rosaspina nella scena finale de La Bella Addormentata mi sarebbe bastato per tutto l'anno e a tutte le temperature, così come il diadema, la chioma bionda e tutto l'armamentario. Insomma, allora non è che concepissi il sottile e perverso piacere di una cabina armadio di quelle che vedi solo su Teen Cribs e ti mangeresti le mani perché c'è una sola anta ripiena di scarpe da abbinare ad altre due ante di pantaloni e cinque di vestiti. Senza dimenticare la cassettiera per i gioielli, con quelle seicentonovantacinque paia di orecchini di tutti i colori.

Allora mi bastava il mio vestitino azzurro, il mio diadema di tutto rispetto made in China e i miei molleggiatissimi riccioli d'oro che non sarebbero mai più tornati, esattamente come il mio sguardo assolutamente sognante e disinteressato verso l'evento in sé, che dal "Forte!" dei 5 anni è diventato un "Fottiti!" a 15 (tanto per conservare la F iniziale e mantenersi eretici nella tradizione) e un "bachtiniano" a 25. Verità per verità, anche se "bachtiniano" suona estremamente figo, darei tutta la mia "figaggine" per tornare al "Forte!" dei 5 anni, ma... Sfortunatamente gli occhi sono l'unica parte che non puoi retroeducare... ( > Retroeducare: Neologismo coniato alle 21:37 tramite consolidato metodo allacazzo guardando C.S.I N.Y. per indicare la modalità intellettiva tale per cui è possibile far tornare un qualsivoglia oggetto d'indagine ad uno stato precedente senza che conservi segni dell'evoluzione da cui proviene).

Ma non divaghiamo. Divagare è sinonimo di perdersi. Perdersi è sinonimo di vivere. E vivere è sinonimo di... Smettere di scrivere come Baricco. Principessa. A ripensarci adesso suona talmente banale... Io, che non sono più riuscita a conformarmi a nessun prototipo comportamentale ed ideologico femminile, che ho indossato felpe e profumi da uomo per anni, che avevo gli Slipknot nel lettore cd portatile che ad aprirlo e mostrare il disco era come lanciare una sfera poké di immane potenza distruttiva verso la rana di Squerez! dei Lunapop (un nome una garanzia: l'album faceva cagare...). Io che Principessa non lo sono mai stata davvero... Perché la verità è che le Principesse... Mi sono sempre state un po' sulle palle.

Dicevo, non era la ricchezza a muovermi verso l'ideale della Principessa, anche se forse oggi ciò che spinge le bambine a protrarre questo tipo di tradizione onirico/esibizionista è proprio quella. Ciò che mi piaceva delle Principesse, erano i Principi: questi "figuri" dotati di fisico statuario e di animo cavalleresco che spuntavano dai boschi (proprio come i vouyer più sagaci), che si innamoravano di te anche se non aprivi bocca e usavi le forchette al posto dei pettini (proprio come gli schizofrenici più avanzati), che nel bel mezzo di un salone di gente socialmente ed economicamente superiore a te ti sceglievano perché eri quella più in tiro di tutte, e si mettevano ad odorare tutti i piedi del regno per ritrovarti. Quelli che cantano canzoni di merda e spariscono per poi ricomparire casualmente in mezzo a un bosco e baciarti oltre una teca di vetro no però.

E il Principe Filippo, io lo adoravo. Era così sbruffone, intraprendente, pragmatico... Tenace. Lui che scappava fuori alle spalle di Rosaspina cantando la stessa canzone di lei dicendole che non era uno sconosciuto, perché quello che aveva incontrato nei suoi sogni era proprio lui... Sì, okay, messa così però è troppo sdolcinata. Ho sviluppato una sorta di intolleranza verso le sdolcinatezze, una sorta di diabete emotivo, perciò passiamo ad un next level dopo aver constatato come la Disney sia sostanzialmente habermasiana > Habermasiana: dicesi "habermasiana" una visione del mondo pacata e tranquilla dove siamo tutti fratelli e tendiamo al bene ed al bello e alla cooperazione comunicativa felice che possa soddisfare tutti. Ovviamente in Sociologia non è spiegato così, il tutto assume un contorno senza dubbio più amplificato, credibile e scientifico. Ma qui siamo tutti luhmanniani, e in quanto tali sappiamo perfettamente che vige una doppia contingenza e che non ci sono vincitori, se non quelli che riescono a soddisfare le proprie aspettative verso se stessi giocando abilmente con quelle degli altri.

E - sempre in quanto tali - sappiamo che l'amore come ce lo rifila la Disney è un evento altamente improbabile. Le reciproche aspettative non verranno mai soddisfatte completamente. Due anime sono impenetrabili l'una per l'altra. Non sapranno mai cosa realmente vogliono dall'altra, se non quello che intendono far credere attraverso ciò che scelgono di comunicare. Anche perché - in quanto tali - sappiamo che la sincerità è l'unico elemento incomunicabile. Ed è in virtù di questo che ora comprendo perché il mio cartone animato preferito, quando ero bambina, era Lupin. Un cartone "da maschio".

Lupin mi piaceva per una serie di motivi che ovviamente andavano al di là dell'aspetto fisico. Certo, a tratti mi ricordava mio zio: mingherlino, giocherellone, capello corto. Ma al di là di questo, Lupin era l'unico cartone che mi faceva ridere di gusto: la sua goffaggine era proporzionale alla sua risolutezza, e alternava momenti di pura stupidità a momenti di puro genio strategico. Insomma, aveva le parvenze dell'idiota, ma non lo era mai davvero. La sua saggezza stava nel sapere quando tendere l'elastico e quando lasciarlo, e il suo rapporto con Fujiko ne era una prova evidente. Perché Lupin ha una forma fatale di attrazione per una donna che può competere in tutto e per tutto con lui, per capacità tecniche e strategiche, superiore a tratti per le carte della femminilità e del "distacco emotivo" che le permette di trattare Lupin come un calzino, ma inferiore in un'unica cosa che vale comunque a renderla nel complesso inferiore e Lupin stesso: Fujiko è una maschera. Lupin no. O meglio, lo è anche lui, ma in altro modo: Lupin bluffa. Non può essere trasparente, perché se i suoi intenti fossero evidenti i suoi piani salterebbero; d'altro canto, Fujiko non può essere trasparente, perché se ciò che prova fosse evidente, la tensione tra lei e Lupin e le priorità dei suoi interessi materiali decadrebbero.

Tra Fujiko e Lupin la doppia contingenza si eleva alla seconda, il che rende il loro rapporto - di qualunque natura sia - doppiamente intricato ma allo stesso tempo doppiamente semplificabile: entrambi infatti esonerano dalle reciproche aspettative quando compaiono a mettersi i bastoni tra le ruote, ed entrambi prevedono esattamente le loro reciproche mosse in base a cui si muovono poi al fine di arrivare ad una conclusione inaspettata per l'altro che li porti a guadagnarsi il bottino. Semplificando: da una parte fanno ciò che l'altro non si aspetta per aumentare le probabilità di cogliere di sorpresa; ma per fare questo, allo stesso tempo, calcolano (a e a volte fanno) ciò che l'altro si aspetta per distaccarsi completamente o parzialmente da quell'aspettativa. E così la complessità aumenta a livelli vertiginosi, ma il bello di Lupin e Fujiko è che si nutrono vicendevolmente di questa complessità, non ne sono prede. Sanno chi c'è dall'altra parte, sanno i loro punti deboli e i loro limiti, e oltre a far rientrar questi nei loro calcoli e a sfruttarli, nutrono verso di questi un profondo rispetto. Fujiko viene sempre perdonata da Lupin per il suo egoismo; Lupin viene sempre perdonato da Fujiko per la sua lussuria. E poi si riparte daccapo.


Fujiko è una maschera, e Lupin lo sa bene: ciò che lo porta a lei non è tanto il fatto che sia una donna con cui possa confrontarsi, che abbia un corpo mozzafiato, che sia estremamente indipendente e talmente orgogliosa e fiera da non cadere mai ai suoi piedi se non per finta e per ottenere ciò che vuole. Lupin conosce bene la maschera. Ma conosce ancor di più quel che nasconde, ed è quello che lo porta ogni volta a perdonarla e a dirsi "Non me ne frega nulla se ci hai riprovato a fregarmi. Io sono ancora qui, e tu sei ancora qui con me". Perché Fujiko non è certo la ragazza più devota della terra e mette sé stessa prima di tutto, ma non si fa scrupoli a tornare sui suoi passi per proteggere Lupin, se necessario. Lupin guarda all'attimo, non al passato. E anche se si ritrova spesso a cedere dinnanzi a lei, mosso da quella parte irrazionale che sembra non saper dominare, sa subito come riprendere le redini e rimetterla in riga senza mai farsi mettere i piedi in testa del tutto. Lui sceglie come e quanto cedere. Il resto è tutto un inseguire.

Ed è in virtù di questo che mi dico che un Principe Filippo potrà anche rapirti nei sogni, ma il Principe dei Ladri è l'unico che sa come rubarti anche il cuore.


venerdì 27 gennaio 2012

...una bella cosa nUOVA: i VIDEO...



...ho trovato il modo di condividere video:
(1) basta selezionare "blogger" sotto la voce "share/condividi" che sta sotto i video di youtube (tipo);
(2) oppure 'copincollare' il codice HTML per la condivisione che ormai c'è quasi ovunque per qualsiasi cosa.

Per di più ho pure scovato un video di Anneke Van Giersbergen (la cantante con l'intonazione angelica) che parla di tal Miranda che "takes her EGGS"... meglio di così, manco una frittata!

Buona seduta =)

Qualcosa di nUOVO no, eh?!

Lontani compagni di “sedute” – una conferma o una smentita se possibile, please!

Ieri sentivo un “intelligentone” dire che, quando si cucinano alimenti con PROTEINE - come l’UOVO -, poi tegami, stoviglie e piatti andrebbero lavati SOLO con acqua fredda. Secondo il “sapientone”, infatti, acqua calda e detersivo creerebbero una reazione con le proteine che non le farebbe distaccare dal pentolame al momento del lavaggio.
Ora, siccome io diffido sempre dei “cervelloni” – proprio come facevano gli antichi greci con le loro barzellette [http://lostimolo.blogspot.com/2012/01/le-barzellette-bisogna-saperle.html] – e siccome, viste le mie grandi e variegate competenze in cucina (psé!), ho il menu mensile che spazia da frittate a spaghetti alla carbonara, volevo chiedervi gentilmente una conferma o una smentita di questa re(l)azione chimica misconosciuta tra acqua calda, detersivo e proteine. Eventualmente s’accettano anche pareri basati sulle antiche e sagge usanze della nonna! In ogni caso, meglio un uovo (o una carbonara) oggi che una pentola pulita domani…
…buona seduta!

giovedì 26 gennaio 2012

Facebook come fondamento primo della verità

Ricordo ancora con un certo autocompiacimento quando al liceo spiegavo ai ragazzi come il problema della ricerca della verità che si poneva il giovane Cartesio quando terminò i suoi studi e decise di leggere il libro del mondo fosse quantomai attuale: in particolare in un'era ricca di informazioni (vere e false) come la nostra.
Oggi la verità non la ricerchi solo col professore, ma anche con google e con la wikipedia, spesso fraintendendo, ma di certo con una rapidità di accesso alle informazioni di svariati ordini di grandezza superiori rispetto a quello che era qualche anno fa – la distanza tra due click e prendere l'auto per andare in biblioteca (e solo negli orari prestabiliti) è davvero enorme, di certo molto più vistosa della distanza tra la fine degli anni novanta ed il secondo decennio del duemila. Se usati bene, poi, i due click sono persino più performanti anche in termini qualitativi di tutti i tomi della biblioteca.
Ricordo anche un vecchio post su 'La Lapide' (il mio blog storico) in cui scherzavo sulle catene di Sant'Antonio in formato e-mail che in quei periodi entravano in competizione con lo spam selvaggio e con i primi filtri antispam in fase embrionale.
Oggi leggo certe bufale su faccialibro davvero da inorridire. Ma inorridisco ancora di più quando queste bufale si diffondono a macchia d'olio e nessuno si preoccupa di cliccare su google e prendere le dovute precauzioni. Faccio due esempi che mi sono capitati ieri, dove un minimo di interesse per le fonti e per l'attendibilità delle notizie, prima di far partire la polemica, credo che sia d'obbligo.
Due esempi davvero simpatici.

"Il latte in cartone, quando non è venduto dopo un determinato termine di tempo è rispedito in fabbrica per essere pasteurizzato un'altra volta...Questo processo può ripetersi fino a 5 volte, cosa che conferisce al latte un sapore diverso da quello iniziale, aumentando la possibilità di cagliare e riduce significativamente la sua qualità, nonché anche il valore nutritivo diminuisce...
Quando il latte ritorna sul mercato, il piccolo numero che vedete dentro il cerchietto nel file allegato viene modificato.
Questo numero varia da 1 a 5.
Sarebbe conveniente comprare il latte quando il numero non supera il "3". Numeri superiori comportano una diminuzione nella qualità del latte. Questo piccolo numero si trova nella parte inferiore del cartone; se compri una scatola chiusa, è sufficiente controllare uno dei cartoni, tutti gli altri avranno lo stesso numero.
Ad esempio: se un cartone ha il numero 1, vuol dire che è appena uscito dalla fabbrica; ma se ha il numero 4, significa che è già stato pasteurizzato fino a 4 volte ed è stato rimesso sul mercato per essere venduto..."
Eri a conoscenza di questa cosa? Condividela! :(

Benzina: si sa che in Italia sono state introdotte tasse supplementari, ma è possibile che in Svizzera costi davvero quasi la metà? Basta cliccare sull'immagine (su facebook, non qui) e leggere una valanga di commenti di gente che vive (per fortuna) in Svizzera, i quali ribadiscono che nel paese del cioccolato sfizero la benzina costa al massimo 0,20€/lit in meno che da noi. Differenza che non è poco, ma non è neppure poi così abissale. Ma almeno la polemica ed il vittimismo dilagano, ed un sacco di gente condivide con commenti inorriditi.
Latte: questa bufala (non la mozzarella né il latte di) ha del sensazionale. Se fosse vera, dubito che un sistema di numerazione sulla confezione indicherebbe un dato tanto sensibile. Si potrebbe codificare in qualche modo, ma lasciarlo così espresso è davvero da suicidio per la credibilità chi produce latte, appena scoperta la notizia. Del resto, è stata subito smentita da ogni dove e su ogni sito, dal Corriere a siti indipendenti di produttori. 
Questo rimanda alla definizione tecnica di 'informazione', che differisce dal 'dato' in quanto il dato è materiale grezzo, mentre l'informazione è un dato interpretato. Che sulla confezione del tè sia scritto '2013' (dato) non posso metterlo in dubbio, ma sta alla mia capacità di giudizio riconoscere se è un numero a caso sotto il codice a barre, se è la data di scadenza della confezione o se è la scadenza del concorso 'bevi turbotè e vinci una scorta per un anno!'. Se poi fossi molto furbo, potrei ipotizzare che quel '2013' è un messaggio degli alieni e condividerlo su faccialibro per vedere l'effetto che fa. Anche sul caso del latte, ho visto un sacco di gente condividere e nessuno informarsi (vengo anch'io!).
Viviamo forse in un periodo da polemica facile. Ma un minimo di educazione alla ricerca delle fonti ci vorrebbe proprio, soprattutto in Rete. Suggerisco di non assurgere l'attendibilità di Facebook a fondamento primo di verità, si rischia fino ad un massimo di 5 pastorizzazioni!!

venerdì 20 gennaio 2012

CòpernicO (NoperciòC-ambiando l'ordine degli addendi, il risultato... cambia)

In una breve ma intensa sosta ad un vespasiano pubblico (ma alquanto privato alle 8.30 della mattina) dell'università, leggo:

"La spiegazione dei movimenti celesti non riuscì a Copernico, finché egli ritenne che le stelle ruotavano intorno all'osservatore; gli riuscì solo quando fece ruotare l'osservatore e per contro star ferme le stelle".
(cit.)

Morale banale: cambiare punti di vista, la propria Weltanschaaung. Non c'è bisogno d'abbandonare in tutto e per tutto la precedente. Quella copernicana è più una svolta che una vera e propria rivoluzione. Magari è sufficiente tenersi gli elementi, qualche “osservatore” ed un po' di “stelle”, e stravolgerne la disposizione... nella speranza che, modificando l'ordine degli addendi, il risultato cambi – eccome!

Va beh, era una semplice annotazione, ‘tanto per…’. Ma qua al bagno non va più nessuno?
Va beh, era una semplice curiosità, 'tanto per...' e tanto per concludere con un "BUONA SEDUTA"!

venerdì 13 gennaio 2012

Le barzellette bisogna saperle raccontare. Ed i greci non le sapevano raccontare.



Tempo fa, credendo di fare cosa gradita alla prof. di greco antico, acquistai un libricino che raccoglie facezie dell’antichità classica. Lo feci con l’intenzione di regalarlo all’insegnante (giuro! non sono di quelli che seguono la versione tutta positiva ma fuorviante del “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” – ovvero del ‘fa’ agli altri quello che vorresti fosse fatto a te… ché tanto, prima o poi, torna a te’). Fatto sta che, vuoi perché il detto è vero, vuoi per una sbadataggine o vuoi perché tra l’intenzione e l’azione c’è di mezzo la convinzione, il libello rimase a me. Decisi d’assegnargli un ruolo importante e lo trascelsi tra tutto quel tran-tran di testi di passaggio sul mio comodino che di volta in volta vengono eletti a ‘letture da bagno’. Così ieri, alla prima occasione buona per condividere un momento d’intimità col mio vespasiano privato, il Philόghelos (letteralmente “amante del riso”) era lì col caratteristico sorriso forzato del terzo incomodo a rivendicare col suo piccolo spazio il suo mìnuto minùto d’attenzione. All’intenzione seguì la convinzione e quindi l’azione questa volta – o, meglio, le tre germogliarono in un abbraccio indistinto, poiché questo, non si sa per quale reconditi motivi psico-(b)anali-tici, è l’effetto sùbito subìto quando salta alla mente un'idea qualsiasi di ménage à trois, poco importa se i trois in questione sono una ‘tazza’, una risma di fogli ed io. Fu così che, prendendo in mano il libricino – responsabile del presente post e del conseguente casino –, avevo già fatto il primo passo verso la comprensione del vero, inaspettato e semplice perché (perché il vero è inaspettatamente sempre più semplice di quanto si creda) ne Il nome della rosa si parla di un libro antico che uccide.

Ora vorrei spiegare tutto ciò. Eppure se parlo solo io, non mi si crederà; ma se lascerò ‘parlare’ il Philόghelos, allora non gli si vorrà credere. Perché si può credere che ci siano persone col senso dell’umorismo o persone senza senso dell’umorismo; ma è cosa che non si vuol proprio credere che esista un intero popolo col senso dell’umorismo pari a quello dell’‘intelligentone’ che, venuto a conoscenza della morte di uno di due fratelli gemelli, chiede all’altro se sia lui il morto o suo fratello. In questa raccolta di barzellette, infatti, tutto è uguale ad una raccolta di barzellette moderne tranne che per una cosa. Ci si ritrovano figure emblematiche prese di mira (gli ‘scolastici’ sono sagaci quanto i nostri ‘carabinieri’) oppure detti che sottolineano le caratteristiche peculiari di alcuni paesi (l’insuperabile stupidità degli abitanti di Abdera la fa da padrona come la maestria nel rubare tra gli abitanti di Napoli) e così via. Nonostante questi topoi comuni però, non si capisce dove sia andata a nascondersi nell’antica Grecia una cosa, appunto, un ingrediente fondamentale per creare la barzelletta: la capacità di suscitare il riso. Perciò, inevitabilmente, il risultato che esce fuori seguendo la ricetta è una risata dal sapore un po’ sciapo:

(1) Ad un cervellone che vendeva un cavallo, chiesero se l'animale fosse pauroso. “No, lo giuro” rispose. “Lo dimostra il fatto che nella stalla, anche di notte, ci sta da solo!”

(2) “Come te li taglio?” domandò un barbiere troppo loquace. “In silenzio”, disse un tipo dalla battuta pronta”

(3) Un tale cercava uno scorbutico. Quello rispose: “Non sono qui!”. L’altro si mise a ridere e disse: “Menti, riconosco la tua voce”. “Canaglia!” disse lo scorbutico, “se te l’avesse detto il mio schiavo gli avresti creduto, io invece non ti sembro più attendibile di lui?”

(4) Un Abderita, poiché la sua nave era immobile per una bonaccia in alto mare ed avendo sentito dire che le cipolle e le lenticchie danno 'ventosità', ne appese due sacchi alla poppa della nave.

E mi fermo qui – tanto basta ad aver suscitato un duro affronto al testardo non voler credere che un senso dell’umorismo del genere non possa esistere. A questo punto, dicevo prima, dopo poche di queste battute capii perché Umberto Eco poteva parlare di un libro aristotelico di commedia, di satira antica che uccide. Si tratta di un perché che non è solo legato ad un precetto religioso medievale, che nella sua austerità sia volto ad impedire all’uomo dell’età di mezzo di farsi due risate, in quanto la vita terrena, la valle di lacrime, non è né il giusto luogo né il giusto ‘tempo’ per spassarsela. Infatti si tratta di un perché ascrivibile pure all’incapacità di suscitare il riso da-parte-di-buona-parte della commedia antica o, più propriamente, delle barzellette antiche. Proprio per via di tale incapacità di suscitare il riso la lettura del libro de Il nome della rosa viene proibita – un’esposizione prolungata a quel tipo d’umorismo dell’antichità che è non-umorismo non è affatto piacevole e, nel lungo periodo, persino pericolosa: è come se la lucertola si stendesse anziché al sole alla luna ed, in un primo tempo, non ne ricavasse nulla, finché pian piano non rimane stecchita, nell’attesa invano del calore, per il suo sangue freddo. Per questo il testo ch’è vietato sfogliare lo è perché il contenuto è talmente noioso che, oltre a trasmettere ben poco, a lungo andare uccide persino.

Avendo ormai quasi terminato il tempo di ormai violata intimità col mio vespasiano, stufo dell’andare a disturbare romanzi ed autori tanto grandi con stupidate e riflessioni a cospetto delle quali i voli pindarici appaiono come voli di gallina, chiudo il libello con tutte quelle simpaticissime facezie e mi ritrovo riconfermato nella mia vecchia credenza: in fondo, il piatto forte degli antichi greci non era tanto la commedia (o la dimensione del comico) quanto la tragedia (o la dimensione del tragico). “[…] i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano […] tutti sono pieni pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l’estrema infelicità umana; e chi di loro dice che l’uomo è il più miserabile degli animali; chi dice che il meglio è non nascere, e per chi è nato, morire in cuna; altri, che uno che sia caro agli Déi, muore in giovinezza, ed altri altre cose infinite su questo andare” (G. Leopardi, Dialogo di Tristano e di un amico, in Operette morali). Ed infine, almeno, esco con un sorriso dal mio ‘spazio di espulsione’, con la soddisfazione che, se ora mi chiedessero la motivazione dell’irruente preminenza del tragico sul comico nel mondo antico, saprei rispondere prontamente: “mah, vede… Le barzellette bisogna saperle raccontare. Ed i greci non le sapevano raccontare.”