venerdì 13 gennaio 2012

Le barzellette bisogna saperle raccontare. Ed i greci non le sapevano raccontare.



Tempo fa, credendo di fare cosa gradita alla prof. di greco antico, acquistai un libricino che raccoglie facezie dell’antichità classica. Lo feci con l’intenzione di regalarlo all’insegnante (giuro! non sono di quelli che seguono la versione tutta positiva ma fuorviante del “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” – ovvero del ‘fa’ agli altri quello che vorresti fosse fatto a te… ché tanto, prima o poi, torna a te’). Fatto sta che, vuoi perché il detto è vero, vuoi per una sbadataggine o vuoi perché tra l’intenzione e l’azione c’è di mezzo la convinzione, il libello rimase a me. Decisi d’assegnargli un ruolo importante e lo trascelsi tra tutto quel tran-tran di testi di passaggio sul mio comodino che di volta in volta vengono eletti a ‘letture da bagno’. Così ieri, alla prima occasione buona per condividere un momento d’intimità col mio vespasiano privato, il Philόghelos (letteralmente “amante del riso”) era lì col caratteristico sorriso forzato del terzo incomodo a rivendicare col suo piccolo spazio il suo mìnuto minùto d’attenzione. All’intenzione seguì la convinzione e quindi l’azione questa volta – o, meglio, le tre germogliarono in un abbraccio indistinto, poiché questo, non si sa per quale reconditi motivi psico-(b)anali-tici, è l’effetto sùbito subìto quando salta alla mente un'idea qualsiasi di ménage à trois, poco importa se i trois in questione sono una ‘tazza’, una risma di fogli ed io. Fu così che, prendendo in mano il libricino – responsabile del presente post e del conseguente casino –, avevo già fatto il primo passo verso la comprensione del vero, inaspettato e semplice perché (perché il vero è inaspettatamente sempre più semplice di quanto si creda) ne Il nome della rosa si parla di un libro antico che uccide.

Ora vorrei spiegare tutto ciò. Eppure se parlo solo io, non mi si crederà; ma se lascerò ‘parlare’ il Philόghelos, allora non gli si vorrà credere. Perché si può credere che ci siano persone col senso dell’umorismo o persone senza senso dell’umorismo; ma è cosa che non si vuol proprio credere che esista un intero popolo col senso dell’umorismo pari a quello dell’‘intelligentone’ che, venuto a conoscenza della morte di uno di due fratelli gemelli, chiede all’altro se sia lui il morto o suo fratello. In questa raccolta di barzellette, infatti, tutto è uguale ad una raccolta di barzellette moderne tranne che per una cosa. Ci si ritrovano figure emblematiche prese di mira (gli ‘scolastici’ sono sagaci quanto i nostri ‘carabinieri’) oppure detti che sottolineano le caratteristiche peculiari di alcuni paesi (l’insuperabile stupidità degli abitanti di Abdera la fa da padrona come la maestria nel rubare tra gli abitanti di Napoli) e così via. Nonostante questi topoi comuni però, non si capisce dove sia andata a nascondersi nell’antica Grecia una cosa, appunto, un ingrediente fondamentale per creare la barzelletta: la capacità di suscitare il riso. Perciò, inevitabilmente, il risultato che esce fuori seguendo la ricetta è una risata dal sapore un po’ sciapo:

(1) Ad un cervellone che vendeva un cavallo, chiesero se l'animale fosse pauroso. “No, lo giuro” rispose. “Lo dimostra il fatto che nella stalla, anche di notte, ci sta da solo!”

(2) “Come te li taglio?” domandò un barbiere troppo loquace. “In silenzio”, disse un tipo dalla battuta pronta”

(3) Un tale cercava uno scorbutico. Quello rispose: “Non sono qui!”. L’altro si mise a ridere e disse: “Menti, riconosco la tua voce”. “Canaglia!” disse lo scorbutico, “se te l’avesse detto il mio schiavo gli avresti creduto, io invece non ti sembro più attendibile di lui?”

(4) Un Abderita, poiché la sua nave era immobile per una bonaccia in alto mare ed avendo sentito dire che le cipolle e le lenticchie danno 'ventosità', ne appese due sacchi alla poppa della nave.

E mi fermo qui – tanto basta ad aver suscitato un duro affronto al testardo non voler credere che un senso dell’umorismo del genere non possa esistere. A questo punto, dicevo prima, dopo poche di queste battute capii perché Umberto Eco poteva parlare di un libro aristotelico di commedia, di satira antica che uccide. Si tratta di un perché che non è solo legato ad un precetto religioso medievale, che nella sua austerità sia volto ad impedire all’uomo dell’età di mezzo di farsi due risate, in quanto la vita terrena, la valle di lacrime, non è né il giusto luogo né il giusto ‘tempo’ per spassarsela. Infatti si tratta di un perché ascrivibile pure all’incapacità di suscitare il riso da-parte-di-buona-parte della commedia antica o, più propriamente, delle barzellette antiche. Proprio per via di tale incapacità di suscitare il riso la lettura del libro de Il nome della rosa viene proibita – un’esposizione prolungata a quel tipo d’umorismo dell’antichità che è non-umorismo non è affatto piacevole e, nel lungo periodo, persino pericolosa: è come se la lucertola si stendesse anziché al sole alla luna ed, in un primo tempo, non ne ricavasse nulla, finché pian piano non rimane stecchita, nell’attesa invano del calore, per il suo sangue freddo. Per questo il testo ch’è vietato sfogliare lo è perché il contenuto è talmente noioso che, oltre a trasmettere ben poco, a lungo andare uccide persino.

Avendo ormai quasi terminato il tempo di ormai violata intimità col mio vespasiano, stufo dell’andare a disturbare romanzi ed autori tanto grandi con stupidate e riflessioni a cospetto delle quali i voli pindarici appaiono come voli di gallina, chiudo il libello con tutte quelle simpaticissime facezie e mi ritrovo riconfermato nella mia vecchia credenza: in fondo, il piatto forte degli antichi greci non era tanto la commedia (o la dimensione del comico) quanto la tragedia (o la dimensione del tragico). “[…] i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano […] tutti sono pieni pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l’estrema infelicità umana; e chi di loro dice che l’uomo è il più miserabile degli animali; chi dice che il meglio è non nascere, e per chi è nato, morire in cuna; altri, che uno che sia caro agli Déi, muore in giovinezza, ed altri altre cose infinite su questo andare” (G. Leopardi, Dialogo di Tristano e di un amico, in Operette morali). Ed infine, almeno, esco con un sorriso dal mio ‘spazio di espulsione’, con la soddisfazione che, se ora mi chiedessero la motivazione dell’irruente preminenza del tragico sul comico nel mondo antico, saprei rispondere prontamente: “mah, vede… Le barzellette bisogna saperle raccontare. Ed i greci non le sapevano raccontare.”

2 commenti:

  1. Sarebbe interessante sapere quali fossero i canoni dell'ironia a quell'epoca; oggi siamo assuefatti dal multitasking talmente tanto che la nostra mente subisce eccessivamente il fascino del non-sense e dei collegamenti 'ci sta tutto perché non c'entra (quasi) niente', di cui pure tu abusi nel tuo post, e la cosa è per me divertentissima, ma magari un grae-culo, dal latino "grechetto", sarebbe rimasto stordito dall'eccessivo numero di collegamenti, che tra 'loquacità' e 'barbiere-come te li taglio' era già una battuta sottile. :)
    Oggi ridiamo per un contesto, per la ripetizione di un meme, per tanti saperi e notizie che si incontrano, si mescolano e ci fa ridere Goku che dice a Gohan-Schettino di salire su quella cazzo di (astro)nave, non sono molto esperto di commedia greca, quindi non saprei per che cosa di fatto ridessero, anche perché spesso a teatro si abusa di adattamenti modernizzati.

    Ad ogni modo, la soluzione è dare la colpa al traduttore. Magari letta in greco, da un greco che la sa raccontare (tipo Berlusconi, da vedere la sua ultima barzelletta su youtube su 'Carletto') avrebbe fatto ridere. :)

    Bel post. Ci hai rinunciato al regalarlo alla prof.? :D

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  2. Mò =) La tua osservazione è azzeccatissima e graditissima.

    I "canoni dell'ironia" a quell'epoca potevano essere ben diversi dai nostri e, quindi, quello che era il comico (in senso lato) per loro potrebbe non esserlo per noi oggi e vicerversa. Anche a me era balenata alla mente un'idea simile. Eppure, tirando fuori anche la tragedia, mi sono chiesto: ma perché i canoni della commedia dei grae-culi (xD) dovrebbero essere talmente diversi dai nostri al punto da non divertirci più tanto mentre i loro canoni della tragedia sono ancora in grado di risvegliare in noi il senso del tragico in maniera tanto forte? Perché la tragedia greca (o riadattata su quel modello) ha ancora oggi un effetto immediato mentre la commedia greca sfocia spesso in un sorriso forzato? Solo perché non sono riuscito a risolvere questo quesito ho continuato a scrivere, pur consapevole che si prestava ad un'obiezione come la tua, che ci sta davvero tutta...

    ...di fatto, poi, non sono neppure io un esperto (anzi! tutt'altro) della commedia/tragedia greca. Appena avrò modo, perciò, scarico il libretto e le domande sulla prof. e mi tuffo nella commedia/tragedia italiana, ché ancora mica l'ho vista l'ultima berlusconata... ;)

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